domenica 5 dicembre 2010

Louis Aragon: fra Dadaismo e Surrealismo

Articolo di Enzo Giudici pubblicato sul giornale "Vita" di domenica 15 luglio 1979.

Non possiamo dire d'avere mai avuto eccessiva simpatia per Aragon: né come poeta né come romanziere (tralasciamo il saggista) e tantomeno come uomo politico e come direttore de “Le Lettre Françaises”. Per motivi ideologici dunque? Senza dubbio, ma anche per una certa diffidenza verso questo scrittore “engagé”, sempre pronto a trovarsi fra i piedi della gente e a metter becco e naso fra tutti (come nel 1968, quando ritenne di doversi inserire nel cosiddetto maggio sul studentesco e ne uscì scornato, sorbendosi l’apostrofe: “taci, vecchia barba!”) e sempre incapace di sganciarsi dal consumismo nonostante le delusioni, le crisi, i dubbi in proposito: prova delle sue contraddizioni, sanate solo da un'ambizione perenne.

Contraddittorio, certo, questo Aragon rivoluzionario che nel 1962 compose, in collaborazione col conservatore André Maurois, l’”Histoire parallèle” (dell'Urss e degli Usa) e che, dopo avere in gioventù aderito al surrealismo (senza però condividerne le fondamentali tendenze anarchiche), se ne staccherà nel 1932 (è il tempo del famoso “affaire Aragon”, col significativo articolo a lui dedicato dal  Dictionnaire Abrégé du Surréalisme”)


Chi scrive si imbatté per la prima volta in lui nel 1942, leggendo la celebre raccolta poetica "Les yeux d’Elsa” (Elsa Triolet, naturalmente), per via delle strofe famose commemoranti il quarto centenario degli amori di Louise Labé, di Olivier de Magny: e sono versi che piacciono, almeno fin quando non ci si accorge che il poeta vive, per così dire, di rendita, adagiandosi nella felice formula di un metro già trovato, nella melodica cantilena divenuta un po' fine a se stessa. Ma neppure questo è valso a rendercelo molto vicino.

Certo, Argon è ben lungi dall'essere tutto qui. Ma neppure la sua prosa è riuscita, nonostante indubbi pregi, a entusiasmarci troppo. I romanzi del ciclo "Le Monde rèel” (1934-1944), sono certamente vivaci ed espressivi ma convenzionali: la borghesia della fine del secolo XIX vi è descritta con vivido spirito denigratore, mentre laboriosi e onesti e puri vi appaiono contadini e operai. L'altro ciclo “Les communistes” (1946-1950) che descrive la vita francese negli anni 1939-40, e ancor più inquinato dall'intento politico. "Questo ciclo -è stato acutamente detto - è un esempio lampante delle contraddizioni che possono sussistere in uno scrittore, sia pure molto dotato, fra intenzioni e mezzi di realizzazione. E ”le sue pagine riuscite, capaci di resistere al tempo, non sono numerose: molte si spengono, soffocate dalla polemica, dalla retorica, dal manierismo”. Sicché, in definitiva, la cosa migliore (o meno caduca) di Aragon, rimane il romanzo "La semaine sainte” (1958) ove la corale (e storicamente fedele) ricostruzione dell'ambiente dei Cento Giorni (1914) è astutamente e abilmente condotta in chiave di lirismo e di pietà, senza scoperto intento politico. E forse solo una rigorosa selezione di tutti gli scritti di questo troppo fecondo autore (persino la sua “Resistenza" è avvenuta soprattutto mediante la penna e tramite pseudonimi), comprese le ultime narrazioni e gli ultimi saggi, in chiave di delusa e amara autocritica può rendere più facile la valutazione (e più simpatica la figura) di uno scrittore che - è stato osservato - come poeta può sembrare controcorrente nell'evoluzione contemporanea, ma abbraccia tutta una tradizione che non può lasciare indifferente nessuno (molte poesie musicate da Ferri, Ferrat, ecc. sono diventate canzoni di successo che diffondono la poesia fuori dai confini del mondo letterario" e come romanziere "non ha probabilmente fatto progredire molto le forme narrative, ma è uno dei prosatori più incantevoli del suo tempo".


A questo punto stavano per noi le cose quando ci siamo imbattuti nell'ottima traduzione di Claudio Rendina (autore anche di un’altra eccellente nota critica e biobibliografica) della prima raccolta poetica di Aragon “Feu de joie” edita a Parigi nel 1920 e ora (1979) ripresentata dalla Edizioni Newton Compton.
“Feu de joie” “significa “Falò”, ma una simile traduzione viene ad escludere quel doppio senso che si presenta invece in francese (falò/fuoco di gioia), eliminando peraltro una serie di ambivalenze, di raccordi, fondamentali in poesia che pongono il lettore in una condizione di non disponibilità a recepire l'intento (significato e significante) del poeta. D'altronde il titolo occupa qui un'importanza capitale, inserendosi coscientemente in un programma stabilito di dichiarazione di guerra al linguaggio, comune a tutti e tre i condirettori di “Littérature”, fin dai loro primi libri (“Feu de joie”; “Mort de pitié” di Breton; “Rose des ventes” di Soupault). Sono espressioni fatte, impiegate per un uso diverso, appartenenti ad un altro campo intellettuale. E’ un metodo di dislocazione che annunciando il Surrealismo fa parte di quell'apparato che avrà molta fortuna anche in pittura sia nella rappresentazione degli elementi del quadro che nella pratica del “collage” e del "ready made" (e non dimentichiamo, come si fa sovente, il metodo paranoico-critico di Salvador Dalì). È un titolo che ci ricorda solo per assonanza "Les joues en feu” di Raymond Radiguet, silloge che si concretizzava in quegli anni ma che fu pubblicata postuma.

Dove leggiamo queste indicazioni? Nell’acuto saggio di un critico finissimo (e che è uno dei più autentici competenti dei movimenti di avanguardia): Gabriele Aldo Bertozzi. Al Bertozzi, autore stimato di intrascurabili pagine su Charles Cros, Rimbaud, Apolinnaire, ecc, dobbiamo infatti, sotto il titolo “ La gioiosa distruzione di Aragon”, la densa produzione di traduzioni rendiniane (con testo a fronte). E vi ritroviamo, oltre ciò che tutti sanno (il terreno derivante dal Dadaismo e annunciante il Surrealismo), anche una rivelazione preziosa. "Feu de Joie” ha una delle sue principali origini nel  cubismo letterario (già Diego Valeri insegnò che la rivoluzione picassiana è di origine letteraria e, meglio, poetica) cioè nelle rimbaldiane "Una saison en enfer” e “Illuminations” (e Pierre Reverdy, il poeta della Bateau Lavoir” affermò che dal caso Rimbaud nacque la “poesia plastica”, ciò insomma che si chiamò cubismo). Da Rimbaud, per geniale comprensione di Picasso, sì attuò quella esigenza sentita e realizzata dalla generazione di Breton, di Soupault, di Tzara. Cioè dalla generazione di Aragon, che – come ricorda opportunamente il Bertozzi - potè ben affermare che tanti nomi di scuole possono ridursi alla sola parola di “Rimbaldisme”. Il discorso si farebbe ora troppo lungo, limitiamoci qui ad accogliere due suggestioni: che (sono parole inedite di Soupault) “Feu de Joie” “fu per i primi surrealisti una rivelazione. Quel piccolo libro ci ha permesso di comprendere che un poeta era anche un uomo che non aveva accettato l’idea di essere un seguace ma un annunciatore. Aragon poeta ci ha insegnato a liberarci” e che questo primo Aragon , contrariamente alle apparenze, aiuta, col suo vigore non ancora contaminato dai malintesi della storia, a capire l’Aragon successivo cui si è tanto e giustamente rimproverato una discontinuità d’idee.


La raccolta in questione servirà dunque a rendere più accessibile, più omogeneo, più simpatico il “moschettiere” Aragon? Al lettore la risposta. Certo, ora che dal Dadaismo e dal Surrealismo siamo tanto lontani tutto è più facile e più difficile a un tempo. Ma non è questo, forse, ciò che conta di più, come che la si giudichi, questa raccolta così opportunamente e intelligentemente riproposta al lettore italiano, costituisce una lettura istruttiva e attraente. E la traduzione del Rendina ha veramente una funzione chiarificatrice e illuminatrice. Fin dalla prima poesia, alcuni versi sorprendentemente (o volutamente?) piatti (“Rues, campagnes, où courais-je? … J’ai eu honte, j’ai eu honte, oh!”) sono trasferiti in una più genuina intimità: “Strade, campagne, ove correvo? …o che vergogna ho provato! Che vergogna!”). Mentre talora il ritmo e la concretezza dei versi (“Un soir des plages à la mode on joue un air/Qui fait prendre aux petits chevaux un train d’enfer/Et la fille se pâme et murmure Weber/Moi je prononce Wèbre et regarde la mer”) trapassano senza difficoltà nella traduzione (“Una sera sulle spiagge alla moda suonano un’aria/Che fa prendere ai cavallini un’andatura folle/E la ragazza va in estasi e mormora Weber/E io pronuncio Wèbre e guardo il mare”).
Non resta, insomma, che da essere sinceramente grati ai due autori che hanno voluto e saputo farci accostare all’Aragon più lontano. Un Aragon che a torto o a ragione può sembrare diverso da quello più politicizzato e invadente cui non ci è mai riuscito di abituarci.

Enzo Giudici


Altri link su Louis Aragon raggiungibili da questo sito: Pozzomaina A.S.D.

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